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La censura nella Musica Italiana

Censura: C’è qualche altra parola che evoca o che ha evocato più terrore e sconforto, fascinazione e sdegno? Poteva la musica, e soprattutto le parole che l’accompagnano, rimanerne immune? Tanti sono gli esempi, talvolta insospettabili, di autori e di canzoni finiti sotto l’implacabile scure del censore e che soprattutto in Italia ha trovato terreno fertile per il suo lavoro. Ma la censura nella musica può considerarsi una depravazione dei tempi che furono oppure aleggia sempre viva,fiera e competitiva anche ai giorni nostri, tempi dove non sembra più esistere una parola o un argomento che possa turbare le coscienze?

La censura non poteva essere da meno nel fascismo, dove ‘nazionalizzazione’  significa italianizzare i nomi dei cantanti stranieri, quindi Louis Armstrong diventava Luigi Braccioforte. E ‘fascistizzare’ poteva significare bollare come canzoni della fronda, quindi contro il regime, canzoni apparentemente innocue, come “Marameo perché sei morto”, “Pippo non lo sa” e “Il Tamburo della banda d’affori” con i suoi cinquecento cinquanta pifferi, guarda caso lo stesso numero dei componenti della camera dei fasci e delle corporazioni.

 

Niente più canzoni anti regime o messaggi celati da mandare al nemico, come si sospettava con Tuli-pan del Trio Lescano, al finire della guerra. Ma ora a farla da padrona è la morale. Il ‘me la dai’ contenuta nella canzone “La Pansè” di Carosone, oggi fa sorridere, ma allora rappresentava una sconcertante forma di trivialità e bandita da radio e locali. E che dire di resta “cu’ mme” di Domenico Modugno dove si insinuava che la fanciulla poteva essere accettabile anche non vergine. Scandalo!

 
 

Modugno, fu il più colpito: “Lazzarella”, cantata a SanRemo nel ’56, parlava di una ragazza madre, e addirittura un lato B osava intitolarlo “Nuda”. Con l’affermarsi della tv, la maglia censoria si fece più fitta, portando a forti misure perbeniste e bacchettone, colpevole principale la stessa Rai.  Negli anni ’60 i primi a farne le spese Luigi Tenco e Fabrizio De Andrè, due cantautori che parlavano d’amore ma non con la leggerezza consentita. Sergio Endrigo subisce l’embargo per la sua “Basta così” che contiene la sconveniente parola “cretino”.

 
 

I Gufi imparano che è troppo presto per parlare di “frutto del peccato” nel brano “Il neonato” così come Toni Santagata con “Lu primmo Amore”, canzone dedicata all’amore promiscuo, che vedrà regolare trasmissione via etere solo a partire dagli anni settanta. “Dio è morto” fin dal titolo mette paura ai funzionari Rai, ma solo a loro è non a Radio Vaticana che mostrandosi più progressista la trasmetterà tranquillamente. Veto anche per Patti Pravo: probabilmente la Rai non poteva accettare l’esistenza di un “Ragazzo triste”. E che dire di Gianni Morandi che subisce una interrogazione parlamentare per il suo noto brano “C’era un ragazzo che come me amava i Beatles e i Rolling Sones”? Motivazione: non era permesso ai cantantucoli di criticare le attività politiche di un paese amico come gli Stati Uniti. Il “bianco sudario” citato dal brano “Noi non ci saremo” dei Nomadi è abbastanza per subire gli strali della censura così come  “Brennero ‘66” dei Pooh che osava lavare i panni sporchi del paese in pubblico parlando di terrorismo.

 
 

Negli anni settanta la battaglia fra autori e censori diventa ancora più aspra, vittimizzando canzoni come “Carlo martello ritorna dala battaglia di Poiters” di De Andrè, “Luci a San Siro” di Roberto Vecchioni, “il gigante e la bambina” di Ron e quella “4/3/1943” di Lucio Dalla che nella stesura originale avrebbe dovuto intitolarsi, orrore, orrore,  “Gesù bambino”. Non sfugge nemmeno Claudio Baglioni, con l’innocente “Questo piccolo grande amore”,  forse non così innocente a giudicare dall’intervento degli scandalizzati funzionari Rai.

 
 

Al vaglio della censura anche le canzoni “bella senz’anima “ e “Sei bellissima” di Riccardo Cocciante l’una e Loredana Bertè l’altra, accomunate dallo stile urlato e dalla parola letto come  luogo non necessariamente di riposo. Di volta in volta, personaggi illustri e non, subivano l’onta, ma spesso il vanto, di una raddrizzata censoria dei propri testi. Rino Gaetano, Francesco Guccini, Antonello Venditti e quel Stefano Rosso che nel 1978 osava parlare di amici, chitarre e spinelli.

 

Negli anni ottanta e novanta la censura allenta un po’ la presa prendendo soprattutto di mira le parolacce, come quelle di Vasco Rossi in “Colpa d’alfedo” o di Zucchero in “Pippo”. Qualche problema in più sembrano darlo gruppi come i politicizzati 99 posse che con “l’anguilla” vanno giù duro contro le istituzioni del paese. I casi più recenti vedono coinvolti Tricarico con il suo “Puttana la maestra” contenuto nel pezzo “Io sono Francesco” e i Sottotono a SanRemo 2001 che nel brano “Mezze verità” si fanno autocensura preventiva non inserendo all’ultimo momento le parole “ fottersene” e “figli di puttana”. Ma l’ultimo caso coinvolge addirittura l’inno di Mameli. La versione gospel di Elisa, che doveva servire da introduzione alle partite della nazionale agli ultimi campionati di calcio, viene censurata dalla Rai e stigmatizzata dal’ex ministro delle comunicazioni, Maurizio Gasparri. E c’è chi dice ancora che sono solo canzonette. 

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