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La casa romana di Michelangelo

C’è una rientranza all’ imbocco dei Fori Imperiali, vicino ai ruderi del Foro Traiano. Proprio lì viveva il pittore della Cappella Sistina, e una targa lo ricorda:

« Qui era la casa consacrata dalla dimora e dalla morte del divino Michelangelo. SPQR 1871».

Si noterà la sintesi estrema: all’ artista più immenso che la città eterna abbia mai avuto bastano poche parole. Ma la targa in fondo dice tutto. Michelangelo abitò in quella casa per cinquant’ anni (salvo i periodi che trascorse lontano da Roma, a Firenze, a Venezia, sulle Apuane). Gliela misero a disposizione nel 1513 gli eredi di Giulio II, affinché, dopo la morte di questi, potesse completare l’ ambizioso progetto del papa: la scultura delle statue della sua tomba. Quel progetto, che inizialmente prevedeva 40 statue ma che si ridusse via via, e che Michelangelo non riuscì mai a realizzare, fu una delle grandi tragedie della sua vita di artista.

La casa – situata in una zona popolare della città, allora chiamata Macel de’ Corvi – era modesta: comprendeva due camere da letto, la bottega al pianterreno, un tinello e la cantina. C’ erano anche una loggia, la stalla e l’ orto. Secondo quanto scrisse lui stesso, Michelangelo ci visse« povero e solo come spirito legato in un’ ampolla », rinchiuso in quelle stanze « come la midolla da la sua scorza». La zona circostante era puzzolente, perché la gente che lavorava nei dintorni la usava come discarica, buttandoci carogne di gatti e di altri animali, e come latrina: purtroppo « non vanno altrove a cacar tutti quanti», commentò scherzosamente Michelangelo in un sonetto burlesco. Eppure in quella « scura tomba» si trovò bene.



Ci abitò negli anni eroici in cui dipinse il Giudizio Universale, e in quelli amari della Cappella Paolina e della fabbrica di San Pietro. Anni di trionfi e turbamenti, battaglie e umiliazioni, inquietudini spirituali e teologiche, nel corso dei quali realizzò capolavori che lo resero «divino» agli occhi del mondo, ma in cui dovette anche subire sconfitte e fallimenti, rinunciare ai suoi sogni più grandiosi, lottare contro l’ invidia e la gelosia dei suoi umanissimi colleghi. Anni che fecero di lui l’ artista più pagato e più ricercato di tutti i tempi- il più celebre e il più temuto per le sue collere violentissime e per il suo orgoglio smisurato. Eppure, l’ artista dei papi e del potere non traslocò mai. Anche quando divenne uno degli uomini più ricchi di Roma continuò a vivere come un artigiano qualunque, senza concedersi comodità, ostentando il suo disprezzo per ogni lusso esteriore. Le ordinarie mura della casa di Macel de’ Corvi assistettero al dipanarsi di una vita straordinaria. Fu lì che il maestro rimase folgorato dalla bellezza di Tommaso Cavalieri, lì che scriveva i sonetti o le lettere a Vittoria Colonna, lì che scolpiva i suoi marmi, progettava chiese, cupole e piazze. Nella casa di Macel de’ Corvi lo scorbutico Michelangelo non abitava in realtà solo, ma con la sua bizzarra famiglia. Non si sposò mai e non prese a vivere con sé nessuno dei parenti, o nipoti, che lo afflissero tutta la vita con le loro richieste di denaro.

La sua quotidianità e il suo affetto li concesse solo al suo garzone, Francesco di Bernardino detto Urbino – che non aveva nessun talento artistico e nulla imparò vivendo per 26 anni accanto al più grande artista di tutti i tempi, ma che Michelangelo amò come un figlio, permettendogli di diventare non solo il suo servitore e assistente, ma anche il padrone di casa e, talvolta, di lui stesso. La morte prematura di Urbino addolorò Michelangelo più della morte dei suoi veri parenti. A Macel de’ Corvi visse anche una sgangherata ridda di serve – fra cui la figlia di un pizzicarolo, che fu rapita dal fratello sotto gli occhi dell’ attonito Michelangelo ottantenne. Tutte queste donne del popolo, giovani e di costumi disinvolti, furono sopportate a malapena dal misogino padrone di casa, che spesso le scacciava dopo poche settimane, maledicendo il giorno in cui le aveva assunte. Giudicava aspramente le serve «tutte puttane e porche».

Alla fine, solo una certa Caterina riuscì a resistere, ed era con lui nei suoi ultimi giorni. Nel febbraio del 1564, l’ artista novantenne fu sorpreso dal discepolo Tiberio Calcagni mentre si aggirava sotto la pioggia. Confusamente, farfugliando, gli disse che stava male, e che non trovava quiete in nessun luogo, e Calcagni lo riportò a casa. L’ ultima malattia fu breve. Michelangelo trascorse tre giorni febbricitante accanto al camino,e tre giorni a letto. Tommaso Cavalieri – ormai invecchiato padre di famiglia ma sempre devoto al geniale maestro che l’ aveva amato – l’ allievo Daniele da Volterra, Diomede Leoni e il servo Antonio gli lessero la Passione di Cristo. Poche ore dopo, nelle stanze di Macel de’ Corvi entrò il notaio e compilò l’ inventario dei beni del defunto. Michelangelo, che aveva acquistato innumerevoli proprietà immobiliari per elevare lo status sociale dei suoi parenti, possedeva solo vestiti frusti e fazzoletti logori, una lettiera di ferro, tre materassi, due coperte di lana e una di pelle d’ agnello, vasi di rame ammaccati. Nessun mobile di pregio, nessuna stoffa preziosa; né suppellettili dorate, specchi o quadri arredavano le stanze spoglie. C’ erano però sacchetti pieni di monete d’ oro – ricchezze che l’ avido maestro aveva ossessivamente voluto ma che non aveva mai speso né goduto. E di tutte le opere che aveva sognato e mai finito aveva lasciato poco: qualche disegno, due o tre cartoni, tre marmi abbozzati (fra cui la Pietà Rondanini). Tutto il resto lo aveva bruciato, nell’ ultimo rogo delle vanità della sua vita.

La casa di Macel de’ Corvi non esiste più, come ci ricorda una seconda targa, posta proprio sotto la prima:

«Questa epigrafe apposta dal comune di Roma nella casa demolita per la trasformazione edilizia è stata collocata nello stesso luogo per cura delle Assicurazioni Generali di Venezia».

La casa di Michelangelo è sparita nel 1902, quando la zona intorno a piazza Venezia fu stravolta per la costruzione dell’ Altare della Patria. La casa del maestro della bellezza fu distrutta per far posto all’ edificio che ospita le spoglie del Milite Ignoto. Quale miopia: migliaia di turisti oggi si metterebbero in fila per visitare le stanze del maestro della Cappella Sistina, per vedere il suo letto, i vestiti, gli oggetti d’ uso quotidiano, le carte, il paesaggio che vedeva ogni giorno mentre scolpiva o disegnava. E la frugalità di quest’ uomo divino sarebbe una indimenticabile lezione di etica e di umiltà. Oggi ce ne sarebbe un estremo bisogno.

di Annarita Sanna

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