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I Giochi di società degli Antichi Romani

Non solo corse sfrenate con le bighe o combattimenti nelle arene. Tra le tante attivitá ludiche, spiccano anche i dadi. Proprio così: i Romani nutrivano anche la passione per i giochi casalinghi, molti dei quali sono arrivati fino a noi.  Inoltre erano forti scommettitori (inclusi imperatori famosi come Augusto, Claudio e Nerone), nonostante le leggi impedissero questo tipo di divertimento, consentito soltanto durante i Saturnali, le feste che segnavano il passaggio fra il vecchio e il nuovo anno.

Tra i giochi su cui si scommetteva, i più diffusi erano probabilmente i dadi e gli astragali. Questi ultimi chiamati anche aliossi, si ricavavano dagli ossi delle articolazioni posteriori di pecore e montoni. La loro conformazione naturale, arrotondata alle estremità, li rendeva adatti ad essere lanciati, proprio come dei dadi, con la differenza che gli astragali potevano ricadere su quattro facce anziché sei. Ogni faccia aveva un valore diverso (“1”, “3”, “4”, “6”) ed era possibile ottenere differenti combinazioni numeriche. Si giocava con quattro astragali (cinque in alcune varianti) e la combinazione più alta era il cosiddetto “colpo di Venere” che consisteva nell’ottenere quattro facce diverse nello stesso lancio. Il colpo peggiore invece era chiamato “colpo del cane” (forse tutti 1).

Oltre agli astragali in osso, ne esistevano di terracotta, avorio, argento e oro. Si trattava di un gioco molto diffuso anche tra i bambini. Gli astragali potevano essere gettati a terra, oppure lanciati in aria e ripresi con il dorso della mano (in questo caso si trattava di un gioco di destrezza, oltre che d’azzardo).Questi ossi erano usati anche per predire il futuro, e proprio per questo motivo sono stati ritrovati in diversi corredi funerari di età romana.






I dadi avevano già l’aspetto odierno, erano realizzati soprattutto in osso, ma anche in avorio, metallo o legno: ogni faccia presentava un numero, da 1 a 6 e se ne usavano due o tre per volta, lanciandoli tramite un bussolotto chiamato “fritillus” o “turricola” Vinceva chi otteneva il punteggio più alto, un risultato stabilto oppure tutti numeri pari o tutti dispari. Anche nel gioco dei dadi esistevano sequenze vincenti, come si evince da alcuni versi di Ovidio, che nell’ Ars Amandi si augura che il lettore sia in grado di “ottenere il numero 3”.
sui dadi e sugli astragali, nonostante i divieti, si scommetteva in maniera forte: nel retro delle locande e delle taverne il gioco era abituale, anche perchè chi veniva scoperto a giocare d’azzardo poteva essere punito, mentre il taverniere non rischiava nulla.

Proprio come oggi non mancavano imbroglioni, bari e trucchi vari. Non di rado i dadi venivano manomessi, consentendo a chi fosse in grado di lanciarli con abilità di ottenere risultati favorevoli. Non erano rari neppure i giochi che prevedevano l’uso di un tavoliere. Ce n’era uno, analogo al moderno filetto con una tavola a tre quadrati concentrici i cui lati erano intersecati da linee perpendicolari: ogni giocatore utilizzava nove pedine e chi riusciva a metterne tre in fila, vinceva una delle pedine dell’avversario.

Più complesso era il gioco dei “latruncoli”, o ludus latrunculorum (gioco dei ladroni): il regolamento non ci è pervenuto, anche se pare che la miglior strategia consistesse nello sferrare un attacco compatto all’avversario, di cui bisognava espugnare la fortezza.

Giochi altrettanto diffusi erano la “morra” (micatio) o il domino, di origine egiziana. Doveva poi esistere qualcosa di molto simile al nostro gioco dell’oca, di cui sono state ritrovate tessere che sembrano indicare movimenti obbligatori, mentre assai popolare era “par et impar” (pari o dispari) in cui si doveva indovinare se i sassolini tenuti in pugno dall’avversario fossero in numero pari o dispari.

Esisteva anche il gioco “testa o croce” che si faceva con una moneta: si chiamava “navia et capita” (navi e teste) perché all’inizio si giocava con una moneta dedicata alla dea Roma che presentava su una faccia la testa della divinità e sull’altra la prua di una nave.

 

 

di Annarita Sanna

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