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Come si calcolava l’ora nella Roma antica?

“…a Roma è più facile trovare un accordo fra due filosofi che tra due orologi.”

Ad affermarlo è nientedimeno che Seneca nella sua opera satirica Apokolokyntosis del 54 d.C. circa. Non aveva tutti i torti: nell’Urbe il calcolo delle ore del giorno restò per lungo tempo piuttosto approssimativo, come ricorda anche un altro grande scrittore (e senatore) Plinio. Nella sua “Naturalis historia”, la Legge delle Dodici Tavole, si menzionava solo l’alba e il tramonto, e non si prevedeva alcun tipo di divisione della giornata. Facciamo un salto indietro.

Fu probabilmente verso la fine del IV secolo A.C. che il giorno venne suddiviso in due parti: prima di mezzogiorno e dopo mezzogiorno. Un addetto nominato dai consoli osservava il momento in cui il sole raggiungeva i punto più alto e provvedeva ad informare della cosa i cittadini presenti nel Foro. Nei giorni sereni e limpidi l’osservazione del movimento dell’asto in rapporto alla Colonna Menia (presente anch’essa nel Foro) permetteva di annunciare l’ultima ora della giornata.

All’epoca delle guerre Pirriche, quindi all’inizio del III secolo a.C. ogni metà del giorno fu ulteriormente divisa in due parti: mattina (mane) e antimeriggio (ante meridiem) prima di mezzogiorno; pomeriggio (de meridie) e sera (suprema) nella metà successiva. Il primo Horologium comparve nel Foro dellUrbe all’epoca della Prima Guerra Punica. Nel 263 a.C. il console Manio Valerio Messalla fece istallare nella capitale un quadrante solare proveniente dal bottino del sacco di Catania.

Non essendo predisposto per il calcolo dell’ora all’altezza di Roma, che si trovava a centinaia di km a nord della Sicilia, l’orologio non risultava attendibile, ma, stando alle parole di Plinio, pur nella sua approssimazione, “rimase la massima autorità per novantanove anni, finchè Quinto Marcio Filippo, che fu censore assieme a Lucio Paolo, fece istallare accanto a quello antico (nel 164 a.C.) un nuovo orologio diviso con maggior precisione“.




Furono Cornelio Scipione Nasica e Popilio Lenate, anch’essi censori, a completare l’opera di Marcio Filippo nel 159 a.C. ponendo accanto al quadrante solare un orologio ad acqua, da consultare nei giorni in cui il sole non era visibile, oppure durante la notte. L’orologio ad acqua funzionava come una clessidra: il liquido scivolava dentro un vaso trasparente, su cui erano segnate tacche orarie regolate in base all’orologio solare di riferimento. Vitruvio narra che c’erano orologi che allo scoccare di ogni ora emettevano sibili di avviso, oppure lanciavano in aria oggetti attraverso meccanismi messi in moto da galleggianti.

Parimenti, esistevano orologi solari enormi, nei quali era addirittura un obelisco a proiettare l’ombra che doveva indicare l’ora, come quello eretto da Augusto ne 10 a.C.; altri invece, erano di dimensioni piccolissime, come i quadranti solari tascabili ritrovati ad Aquileia e Pompei, larghi pochi centimetri.

La suddivisione romana del giorno rimase in auge per l’intero corso del Medioevo. L‘orologio meccanico, che finalmente divise il giorno in ore che avevano tutte la stessa lunghezza, è un’invenzione posteriore all’anno 1000.

di Annarita Sanna

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